Dossier di Design apparso su Ex Vinis n°53 del Giugno 2000 gentilmente
concesso da Aldo Colonetti direttore di Ottagono a Ottorino Piccinato
di Luigi Veronelli
Design e designer non si trovano sul Battaglia, il
Grande Dizionario della Lingua Italiana.
Ce n'é pochi a difendere la lingua; ed io sono tra loro (la
lingua ed altro... e l'italianità; nulla m'imbestialisce ad
esempio, quanto dover notare il numero di ore dedicate, dalle nostre
radio e raittivvù, alla musica classica e no, francese, rispetto
a quelle italiane).
Cerco, ogni volta, se vi siano soluzioni più adatte che l'adozione,
sic et simpliciter, del termine straniero (quasi sempre anglosassone).
Quando non vi sono, non vi possono essere, m'arrendo.
Design e designer - che scrivo per l'ultima volta in corsivo - derivano,
netti, senza possibilità di equivoco, da disegnare, che più
italiano non si può. Per l'esattezza - dritto dritto - dal
latino désignare (composto dal prefisso dé, con valore
rafforzativo e da signare "segnare").
Peraltro vi è un verbo italiano, "designare" con
varie significanze, tra cui proprio "disegnare, riprodurre, rappresentare
con un disegno", "distinguere secondo una qualità
o funzione", "stabilire con certezza".
Disegnatore? No, il termine presuppone, quasi sempre, la dipendenza
da un ente o da un'industria; quando invece il design e il designer
sono veri e propri protagonisti che assumono importanza e valore soprattutto
dalla libertà.
Nè m'interessa più di tanto, si pensi e pronunci "anglosassone":
disain, disainer. Furono gli americani ad entusiasmarsi degli oggetti
- essì: italiani - di quella provocante - nuova, nuovissima
- offerta.
E non importa - in questo caso - che l'industria ci abbia messo la
coda o, piuttosto, ne abbia tratto vantaggio.
Si legge nel Grande Dizionario Treccani. Design: la progettazione
di oggetti destinati a essere prodotti industrialmente, cioè
tramite macchine e in serie, detta più precisamente industrial
design (disegno industriale)... graphic design, la ricerca creativa
e la progettazione di libri, stampati pubblicitari... visual design,
la progettazione d'immagini per l'informazione visiva: cartelli, simboli,
segnali... della linea, di un oggetto.
Design e designer entrano - per l'immediata derivazione dal latino
e dall'italiano - a pieno diritto, intraducibili, nella nostra lingua.
A maggior diritto di sommelier e maître, francesi e di bar e
barman, anglosassoni, intraducibili (e quindi da adottare).
Le definizioni - l'abbiam visto - sono tali da renderci
subito conto: nulla di più attuale, di più adatto al
vivere moderno. Ed è perciò che ho fatto e faccio polemica.
Non v'é "cosa" che sia tanto cambiata, e quanto in
meglio, in Italia della gastronomia, più breve: cibi e vini.
Contro le affermazioni qualunquistiche del mezzo secolo ultimo, l'inizio
del terzo millennio trova cibi e vini di complessità, completezza
e ricchezza inimmaginate ed inimmaginabili.
I contadini e gli artigiani (tra cui comprendo i vignaioli e gli chef)
hanno lavorato così bene e così nuovo da proporre oggi
- "mediati" sulle esperienze culturali, affascinanti anche
quando contradditorie del '900 - cibi nuovi. Ed uso l'aggettivo, nuovo,
nel significato più ampio ed eccitante; il meglio non può
essere che nuovo.
Ho rimproverato e rimprovero ai designer di non aver seguito, se non
con fatti marginali, il progresso sbalorditivo della gastronomia.
Oggi, si cucinano e si mangiano cibi, si producono e si bevono vini
- cibi e vini nuovi, complessi, completi e ricchi - con gli stessi
"attrezzi" di tavola, in primis posate e bicchieri, d'antan.
Quei cibi e quei vini nuovi, esigono "attrezzi" nuovi, migliorati,
appunto, nella misura in cui si sono fatte più problematiche
e dialettiche, le proposte dei cibi e dei vini.
Io mi sono dato da fare (con una grave fallanza - certo
più sfortuna che colpa - d'averlo promosso negli anni della
profonda crisi, primi anni '90). Varie proposte, che riassumo.
Bicchieri. Tutta una serie rivoluzionaria (sì,
rivoluzionaria). Proposti ad Alberto Alessi, accettati con riserva
e non eseguiti, a mio parere, per sgomento.
Vedi quanto scritto e disegnato in EV n. 28.
A quei futuribili bicchieri, altri si sono aggiunti - ahimè,
nella mia sola mente - uno per l'esecuzione di due drink dell'esaltazione
visiva: il Pousse l'amour e il Pousse café; l'altro, passionalissimo,
per la rottura di una sensazione - vaddassè nell'assaggio di
un vino - e la sua ripresa.
Posate. Numerose, con interventi, scanalature
e scannellature che le avrebbero rese adatte a cibi di netta individuazione
e difficoltà, quali i rognoni, le animelle, la trippa, i frutti
di mare e le lumache (ci ha lavorato il designer Fabrizio Amati; anche
qui lo sgomento dei possibili produttori).
Un esempio più puntuale: avverto la necessità di una
forchetta piccola, da ostrica, diversificata; dovrebbe infatti avere
una sua cesoia, discreta, addirittura nascosta (da utilizzare senza
rischi, sia in bocca, sia nel lavaggio), per staccarne il "nervo"
a raso, anzichè strapparla (un giovane, grande chef inglese,
Benjamin Hall, m'informa:
in Spagna, un coltellino/forchetta per le ostriche già esiste).
Il nervo è parte pregevolissima, che, con l'attuale forchetta
da ostrica, va persa.
Recipiente da cucina.
Il sarcofago in legno - con la scelta non facile (minuziose le esperienze),
dell'ontano nero, per la sua straordinaria resistenza alle alte temperature
- capace di cotture in forno;
è stato realizzato dalla Twergi, con risultati di sconvolgente
eccellenza quanto al miglioramento, durante la preparazione - eseguite
da uno chef principe, Ezio Gritti - dei vari cibi, carni e pesci soprattutto.
Gli spiedini. Stecchi da cottura, in forno o
griglia, in diverse essenze lignee (anche qui con risultati a dir
poco sbalorditivi, ma senza esiti "mercantili").
Piatti. Una serie - proposta a Schomuber e Franchi
e non portata a buon fine - sui cui fondi avrebbero dovuto essere
"inseriti" motivi di appoggio e di esaltazione degli ingredienti
della ricetta servita o, seconda ipotesi, l'esecuzione, ai margini,
di motivi, ortaggi e fiori, a mo' di guarnizione e ornamento; o, terza
ipotesi, l'elencazione degli ingredienti stessi a stimolare, nell'atto
del mangiare, la curiosità e la scoperta.
Bottiglie in legno. Le tante bottiglie (bordolese,
renana, borgognotta, sciampagnotta, altre ancora e di fantasia), come
provocazione formale (realizzate da Coruna; ahimè, offerte
quanto peggio non si poteva).
Tovaglie. Una serie, il cui tessuto avrebbe
dovuto avere parti in rilievo così da consentire un migliore
appoggio degli oggetti di servizio.
L'Ellevì. Inquietante collana da
bottiglia per "l'esibizionismo" del tappo.
I designer - ben più provveduti di me - han fatto nulla? Dopo
"le creatività" esaltanti - per intelligenza ed eccellenza
innovativa - degli anni '60 e '70, dall'80 in poi è stato fatto
pressochè nulla.
Quegli oggetti erano di sconvolgente valore. Avrebbero dovuto, quindi
e all'opposto, essere maestrali.
Mi sia concesso di ricordare solo: le posate Piuma, la grattugia e
la mezzaluna di Enzo Mari per Zani & Zani; il cavatappi antropomorfo
Anna G. di Mendini per Alessi e, sempre per Alessi, lo spremiagrumi
Juicy Salif di Starck e la caffettiera Conica di Aldo Rossi.
Che altro? Lo verificheremo in Cernobbio, dal 9 al 12 giugno, durante
la manifestazione "La Tavola delle Meraviglie", più
ancora che con l'esposizione delle opere e dei progetti, con un preciso,
puntuale dibattito - 9 giugno, ore 15 - tra i gastronomi e i designer.
In una giornata che avrà come manifesto, il verso rabbioso
ed inesausto di Vladimir Majakovskij, messo a titolo: "Dateci
forme nuove è il grido delle cose".
Designer cui chiedo - già lo feci in una
trasmissione raittivvù - di moltiplicare l'impegno e le proposte.
Una sola esclusione perentoria: l'uso della plastica (gli oggetti
in polipropilene di Gino Colombin per la Kartell - grazie ai contatti
davvero effimeri coi cibi - sono la classica eccezione che conferma
la regola).
La rifiutino a priori la plastica, i designer, frutto orrorizzante
del petrolio.
Al contatto con ciascuno dei prodotti della terra, subito, inesorabile,
la plastica si fa inquinante con il "suo" calore, ineluttabile,
sgradevole e scostante.
Ogni cibo ed ogni vino (la nostra stessa mano, aggiungerei) - dal
suo contatto e peggio ancora dall'uso, in ogni momento della preparazione
o della vinificazione - ha irrimediabile danno.
Può sembrare un fatto episodico.
È invece un segno su cui meditare, un imperativo categorico
che ci convince, ancora una volta.
Culture artigianali e cucine regionali: basi del
futuro design italiano da cucina.
di Aldo Colonetti
Esistono luoghi del design dove cultura materiale,
problemi formali, l'estetica intesa in tutti i cinque sensi sono presenti
contemporaneamente, a conferma che non si può separare la parte
dal tutto, senza rischiare che l'attività inventiva e progettuale
scada a semplici esercizi stilistici.
Uno di questi luoghi è la cucina dove avviene tutto quel sistema
rituale legato alla preparazione e al consumo del cibo. Le qualità
del design italiano sono sicuramente fondate sulle eterogenee tradizioni
della cultura artigianale e artistica del nostro paese; la ricchezza
e la varietà delle diverse cucine regionali stanno a fondamento
della straordinaria qualità della nostra tavola.
Per questa ragione design e cibo non sono soltanto due realtà
della presenza italiana nei mercati internazionali, ma, assieme, è
un "binomio vincente" anche dal punto di vista metodologico.
Sottolinea il fatto che da sempre lo spazio del cibo occupa un ruolo
determinante nella definizione degli oggetti e delle funzioni connesse
all'abitare; e se la casa costituisce il settore fondamentale del
design italiano, il cibo fa parte da sempre degli "stili dell'abitare".
Non è soltanto, il cibo un mezzo di sopravvivenza. La sua cultura,
la sua storia determina gli spazi, la forma, l'estetica della casa.
Dal cibo e dalle tecniche di vita materiale è possibile ripartire
per mettere in ordine i segni e le cose dell'uomo, la cui storia non
può essere dimenticata se il progetto deve, da un lato, parlare
linguaggi chiari e semplici e, dall'altro, ha la necessità
di reperire il "nuovo" nella cultura del progetto e non
solo nella cultura del mercato. Abitare la tavola significa, in primo
luogo, riconoscere la propria identità nella trama della storia
e delle tradizioni fondate sulla concretezza dei fatti e non sulle
utopie di un mercato immaginario.
Il cibo e i suoi riti sono in grado di rappresentare un buon sistema
di orientamento delle attività progettuali.
Villa Erba, Cernobbio, Biella. "Tavola delle
Meraviglie". Al dibattito "Dateci forme nuove è il
grido delle cose. Il Design e gli strumenti del cibo", coordinato
da Luigi Veronelli e Aldo Colonetti (Direttore scientifico dell'Istituto
Europeo di Design e della rivista Ottagono), partecipano: Alberto
Alessi e Paolo Boffi (imprenditori), Guido Venturini e Giacomo Bersanetti
(designers), Roberto Pezzetta (responsabile settore design Elettrolux
Zanussi), importanti giornalisti del settore e molti grandi chefs,
tra cui Benjamin Hall.
"Il designer è l'artista della nostra epoca.
Non perchè sia un genio ma perchè con il suo metodo
di lavoro riallaccia i contatti tra arte e pubblico; perchè
affronta con umiltà e competenza qualunque domanda gli venga
rivolta dalla società in cui vive, perchè conosce il
suo mestiere, le tecniche e i mezzi più adatti a risolvere
ogni problema di design. Perchè infine risponde alle necessità
umane della gente della sua epoca, l'aiuta a risolvere certi problemi
indipendentemente da preconcetti stilistici o da false dignità
artistiche derivate dalle divisioni tra le arti", Bruno Munari
(da "Arte come mestiere", 1966).
"La svolta in cui viene a trovarsi oggi
il design - all'inizio d'un nuovo millennio ma forse anche d'una nuova
era: quella dell'elettronica - è senz'altro di grande interesse.
Sarei quasi tentato di affermare che la sua portata è altrettanto
gravida di conseguenze di quella che segnò a suo tempo il passaggio
dalla progettazione ancora artigianale delle Arts & Crafts a quella
dell'oggetto di serie del primo razionalismo meccanizzato..."
"...se, da una lato, il design continua ad essere la spia del
nostro panorama estetico ambientale, dall'altro, sta diventando il
mezzo più emergente per una totale rivoluzione informatica
e di comunicazione interpersonale di cui il prossimo futuro non potrà
fare a meno e non potrà non divenire cosciente", Gillo
Dorfles (da "Le forme della rivoluzione", editoriale di
Design Corriere, inserto del Corriere della Sera, 11 aprile 2000).
